I ritratti di Fabio Fantuzzi
di Diego Macrì

Era la fine di agosto di quest’anno. Il mio hobby, come ogni estate, era respirare a Scilla, in Calabria, sullo stretto di Messina, dove sono nato e dove ogni estate immancabilmente torno (ri-torno). La consuetudine del rito ci comunica, con la prevedibile successione dei fatti promessi, una confortante sensazione di controllo dell’esistenza: c’è qualcosa che accadrà e che già conosci. D’estate, a Scilla, sono alla ricerca del rito.

Quel giorno, mentre leggo la posta, ce n’è una mail di Fabio Fantuzzi (d’ora in avanti per semplicità Fabio) che mi chiede una lettura, un commento o non so neppure io cosa del suo lavoro fotografico di ritratti: “Perché Fabio proprio io?” gli rispondo, tradendo così una percezione di condanna. “Non scrivo di fotografia”, gli dissi, “faccio un altro lavoro e la sola cosa che mi collega alla fotografia è il piacere di fotografare, il possesso di alcune macchine fotografiche, le acute discussioni con gli amici di Fotoprisma sui meriti del digitale o dell’analogico, le riflessioni sulle maschere fatte in camera oscura con le mani piuttosto che in camera chiara con la funzione pennello di Photoshop, le comparazioni di obiettivi, e cose interessanti di questo genere.”

Mi risponde con argomentazioni adulatorie che ora non ricordo ma delle quali gli sono comunque grato (la vanità uccide ogni altro aspetto dell’essere, anche il più raffinato senso critico). Una cosa, però, ricordo bene. Disse di avermi scelto soprattutto perché usavo Nikon e non Canon. Insomma, non mi aveva scelto. Mi aveva semplicemente designato e neppure lui sapeva perché lo avesse fatto. Quell’imprevedibilità che avevo pensato stupidamente di cancellare con il rito della vacanza era sopraggiunta. Perentoriamente, Fabio mi ricordava l’insulsa idea di potere controllare la realtà. Aveva messo in discussione il mito del rito (la frase è cacofonica ma mi piace ugualmente perché d’effetto).

Ora, mentre sto scrivendo, siamo in novembre ma questo sfasamento temporale non sopravviene per dimenticanza o scarsa valutazione dell’incarico. Solo adesso mi sembra di avere trovato un modo dignitoso di farlo. Insomma, sono rimasto per lungo tempo in attesa. Ho letto qualcosa senza un preciso indirizzo, ho sviluppato qualche riflessione con gli amici poi, a un certo punto, nasce un sentimento di autodifesa che sviluppa non dico la consapevolezza ma almeno la vaga sensazione di avere scoperto come togliere disordine ai pensieri, una sia pur fragile struttura, un criterio per organizzare una riflessione. Dunque quel giorno, l’altro giorno, ho risposto a Fabio: “Domani inizierò, Fabio”. E per giustificare il ritardo ho ricordato di Ettore Scola quando disse di meravigliarsi del fatto che sua moglie non capisse che lui stava lavorando anche quando era affacciato alla finestra (non voglio paragonare Fabio alla moglie di Ettore Scola, è la metafora che conta).

Anch’io sono rimasto questo tempo alla finestra e da qui, da questa posizione di privilegio, ho scorto, sia pure nella nebbia della quotidianità, alcune idee sul ritratto che mi consentiranno di evitare l’inizio che avrei davvero desiderato: “I ritratti di Fabio sono belli”, “I suoi ritratti mi piacciono”. Avrei quindi terminato giustificando la mia personale opinione con un’affermazione incontestabilmente tautologica che tutti adoriamo: “Non è bello ciò che è bello è bello ciò che piace” (chi avesse da dire contro la tautologia si ricordi che la nobile e complessa matematica è in gran parte tautologica).

Purtroppo, come ha scritto recentemente e severamente sul blog Fotocrazia Michele Smargiassi, “bello” è una parola jolly che tende a narcotizzare. E’ un alibi lessicale che ci esime dallo sforzo di produrre un giudizio articolato, solido. Anche “interessante” e ancor peggio “intrigante” sono a suo giudizio parole inusabili come ogni banalità camuffata. Peccato, però, l’avrei usata volentieri l’espressione: “questa è una bella immagine di Fabio” riguardo magari a (donna con orecchino rif. a immagine) o anche a (donna con sullo sfondo un quadro rif. a immagine), ma non posso, non possiamo. Le élite del pensiero lo vietano. “Bello” è un approdo acerbo anche per il soggettivismo più bieco. Dobbiamo salpare alla ricerca di sponde più lontane, più complicate. Dobbiamo, dunque, cancellare il nostro sentimento soggettivo, nascondere lo stato di rapimento di fronte al sole che tramonta dietro la silhouette di un’isola, o quando il mare grida bianco urtando gli scogli con la spuma che si leva verso l’alto, o al cospetto del sorriso pieno dei nostri figli, alla passione visibile di un dipinto. No, non possiamo dire “è bello”, dobbiamo rifarci ad alcune delle argomentazioni che nel corso del tempo si sono sedimentate sul ritratto in fotografia. Solo così possiamo ambire a scrivere: “Quest’immagine è efficace riguardo a questo e quest’altro scopo ….”. Solo da qui possiamo iniziare. Il sottoscritto, dunque, potrà esprimere condizionatamente la sua interpretazione e voi, alla fine, potrete formulare la vostra (uso il plurale, utilizzo il voi, perché ci sono discrete probabilità che almeno una seconda persona oltre a Fabio, uno stretto parente o il suo amico più caro, leggerà questo scritto dopo che lui, in modo persuasivo, gli avrà chiesto di farlo).

Che cosa si sta fotografando
Il ritratto in fotografia è un genere ambiguo, come del resto tutta la fotografia. Una prima questione attiene alla domanda: che cosa si sta fotografando? Quando un’immagine fotografica diventa un ritratto? Per esempio, le fotografie di Walker Evans ai newyorchesi in metropolitana, immagini che ci parlano della solitudine e della stanchezza di una grande metropoli sono ritratti, oppure appartengono a un altro genere? E’ necessario che persona ritratta sia consenziente affinché si possa parlare di ritratto? E perché mai riteniamo che la consapevolezza sia un elemento discriminante per affermare che quell’immagine è un ritratto e quell’altra no? Si dice che l’accondiscendenza costituisca per un verso la disponibilità del soggetto fotografato a essere “catturato” e, per un altro, rappresenti la convinzione del fotografo che quella disponibilità, assieme alla vicinanza fisica, costituisca il presupposto per potere “vedere” il soggetto, esprimere il suo mondo interiore. E’ davvero indiscutibile tutto questo? La “donna cieca”, immagine esemplare rubata per strada da Paul Strand, è dunque una fotografia documentaria, oppure ritratto, o entrambe le cose?

E ancora. Le immagini di Stieglitz della moglie Georgia O’Keeffe fotografata in ogni dettaglio del corpo (un’autentica biografia seriale di persona accondiscendente) ne hanno davvero catturata l’anima? No, al contrario. Stieglitz ci ricorda con il suo lavoro le difficoltà di definire una persona, sia pure osservandola sistematicamente, sia pure ritraendola in mille modi. Le sue immagini, quasi parossistiche e distaccate, negano alla fotocamera l’accesso al privato, all’io del soggetto. Le incursioni nella presunta interiorità sono per Stieglitz una trappola. L’idea stessa di un “io” che possa caratterizzare un individuo e definirne l’identità è una trappola: quale fra i tanti io che si succedono nella nostra tumultuosa interiorità mostriamo mentre stiamo posando? (forse qualcuno di voi si ricorda di Roland Barthes che in Camera chiara scrive: “Vorrei che la mia immagine coincidesse sempre con il mio “io” che, come si sa, è profondo, …. ma io sono leggero, diviso, disperso e, come un diavoletto di Cartesio, non sto mai fermo”).

La trappola concettuale insita nell’idea d’identità è un tema ricorrente in fotografia. Sindy Sherman nei suoi autoritratti si presenta con molteplici identità. Per questa fotografa, la persona ritratta è una maschera che mette in luce solo quegli aspetti che si palesano al mondo. Erroneamente, tali aspetti sono ritenuti i caratteri dell’individuo, essendo invece sono solo stereotipi sociali e sessuali. Dietro la maschera, dietro la facciata, dietro la smorfia sociale, c’è qualcosa d’inafferrabile che cambia continuamente e, dunque, non può esserci alcuna realtà letterale. Tutto è interpretazione, mito, fantasia autoreferenziale. Le sue immagini, specie le ultime appariscenti e colorate, sembrano trovare significato solo nell’esteriorità e nello stile.

Anche Thomas Ruff in Portraits del 1981 ci vuole dire che il ritratto comunica poco dell’individuo raffigurato. Con i suoi volti l’autore ci riporta a un mondo di passaporti, di carte d’identità, di figure esemplari che potremmo inserire nelle pubblicazioni scientifiche piuttosto che di persone con un’anima. Sono ritratti senza espressione, piatti nella forma, che rimandano, anch’essi, a un’idea di maschera, all’ambizione di una “fotografia oggettiva” che rinunci a volere cogliere ciò che è dietro la superficie del mondo, qualunque cosa questo possa significare: immagini ove volti umani anonimi s’impoveriscono nella composizione, nei tratti, nel colore, lasciando deboli tracci di vita soggettiva.

Dunque, il problema dell’identità e della conseguente ambiguità del ritratto è al centro dell’opera di molti fotografi, ma mentre Stieglitz, Sherman e Ruff, tanto per citarne alcuni, pensano che il fotografo non possa catturare l’anima, non possa andare oltre la maschera della raffigurazione altri, al contrario, intendono rappresentare un’identità sociale (penso all’opera enciclopedica di August Sander e al suo immane proposito di fotografare l’intera varietà sociale tedesca) e, talvolta, persino l’interiorità che, in alcuni momenti, riuscirebbe magicamente a trapelare. Insomma, come ha detto qualcuno, il ritratto sarebbe “un segno in grado di rappresentare un individuo e designare un’identità sociale”. Per produrre questo segno i fotografi si avvalgono sia di ritratti costruiti in studio (a cominciare da Margaret Cameron e Nadar che spogliava i suoi soggetti di qualsiasi elemento estraneo per svelare ancora di più la presenza individuale) sia dei cosiddetti ritratti di contesto, (Ida Kar, Ugo Mulas, Man Ray e così pure alcune immagini straordinarie di Cartier Bresson), utilizzano sia personaggi pubblici sia persone comuni ma con storie interessanti.
Altri autori, come detto, intendono invece andare oltre la dimensione sociale e cogliere addirittura l’interiorità. Fra costoro cito qui solo alcuni di quelli che hanno estremizzato il proposito avendo scelto una condizione particolarmente sfavorevole, quella di scorgere l’anima all’interno di contesti privati difficili e dei quali normalmente non v’è traccia nelle storie di vita che conosciamo; in tal modo, forse, sono alla ricerca di un “io” ancora più categorico, profondo, perché dimenticato.

Per Arbus, Goldin, Ackerman, Petersen, D’Agata e molti altri, nei ritratti ravvicinati di questa natura non ci sono un soggetto e un fotografo, perché il fotografo esiste solo se è parte del mondo che documenta, solo se dissipa il suo connotato originario sino a diventare simile all’altro, e allora le immagini diventano autoriflessive e il sé e l’altro tendono a confondersi. Questi ritratti consentono l’esplorazione di un mondo comune interiore che spesso, soprattutto per gli ultimi fotografi che ho menzionato, è un “mondo maledetto”.
A questo punto, però, tre sottolineature sono doverose. La prima è che quanto ho sinora scritto è servito a classificare il ritratto fotografico in alcune possibili categorie ma senza alcuna intenzione di distinguerle per valore o di attribuire innovatività a chi sceglie di fare parte di questo piuttosto che di quell’altro indirizzo. Per esempio, l’idea di maledettismo non è certo una novità quando appare in fotografia. S’inizia, infatti, molto tempo prima in letteratura con Paul Verlain e poi ci sono gli artisti maledetti come Amedeo Modigliani, Chaim Sautine, Francis Bacon, Vincent Van Gogh, Alberto Giacometti e altri ancora. Nessuna novità dunque, anche se dobbiamo riconoscere che il maledettismo in fotografia richiede una stretta comunione fra soggetto e oggetto, mentre in letteratura e in pittura è la vita in sé dell’autore a dovere essere “maledetta”. E’ come se la fotografia, memore della sua vocazione documentaria, intendesse porre al centro dell’indagine il contesto, il sistema delle relazioni piuttosto che il mondo interiore dell’artista.

La seconda sottolineatura è che non intendo in alcun modo entrare nella polemica se qualcuno dei fotografi menzionati abbia avvertito un autentico bisogno di diventare “maledetto” per potere documentare oppure, essendo per così dire già “sopra le righe”, ne abbia approfittato per diventare fotografo e guadagnarsi la comprensione dei critici. Lascio ad altri la questione perché, come ho detto, è la tassonomia che qui m’interessa (comunque, non ce la faccio del tutto a trascurare il tema sollevato. Le scienze del comportamento organizzativo, per esempio, hanno abbandonato da tempo l’idea di entrare nella scatola nera della persona per esprimere un giudizio sulla sua prestazione. Quello che conta, infatti, sono i risultati, i comportamenti attuati. E’ da qui, per le scienze del comportamento, che devono nascere le valutazioni e gli incentivi e anche i premi. Non capisco allora perché nel valutare un’immagine o un’opera d’arte si debba essere anche psicologi con altissime probabilità di arrivare a conclusioni discutibili e non basti invece, anche in questo caso, un giudizio sul risultato prodotto. Si tratta forse di quel preconcetto secondo il quale l’uomo e l’artista coinciderebbero?

La terza questione è un rigurgito egocentrico. Dopo quanto ho scritto, ho faticosamente razionalizzato (è la sola cosa per la quale sono grato a Fabio) la mia fierezza di essere un semplice turista quando vado in vacanza. Ho allontanato lo stupido senso di colpa, quasi un sentimento di vergogna, che avvertivo guardando le mie non partecipate immagini di viaggio. Non potrei essere niente di più che un turista, me ne sono reso conto, sia pure sedendomi goffamente accanto alle persone e conversando amabilmente con loro prima di scattare una fotografia. Se lo faccio, le poche volte che questo accade, è per raccogliere qualche immagine meno convenzionale, ma sono certo di non essere entrato nel mondo dell’altro e neppure di averlo sfiorato quel mondo e, parimenti, sono certo che anche l’altro abbia sviluppato la stessa opinione. Non intendo ovviamente negare che esistono persone umanamente ricche che avvertono un naturale bisogno di sviluppare una relazione con il prossimo e che, al contrario, la maggior parte di noi sia fredda ed egoista. Dico solo che anche i più caritatevoli fra noi “rimangono fuori” sia pure prendendo immagini migliori e guadagnandosi la simpatia dell’altro (quanto mi piace Antonioni e la sua idea d’incomunicabilità anche fra persone che vivono assieme da molti anni, figuriamoci fra due che si scambiano qualche parola, qualche sorriso e poi … clic). Una nota: quest’ultimo paragrafo sembra davvero fuori luogo rispetto alle immagini di Fabio ma vedrete che non è così, perché il “distacco consapevole”, da turista, riguarda anche lui.

Le immagini di Fabio
Il ritratto in fotografia, dunque, sbanda dalla rassegnazione a potere produrre solo carte d’identità, maschere, stereotipi, sino al tentativo di rivelare un tratto interiore, per quanto complesso ed enigmatico possa essere: a comunicare la magia della personalità, come dice Walter Benjamin. Tutto il resto e cioè ritratti costruiti in studio fotografico oppure no, immagini di personaggi importanti oppure comuni, accondiscendenza oppure inconsapevolezza del soggetto, taglio americano oppure giapponese mi sembrano questioni meno affascinanti del primo tema che è poi un dilemma: cogliere l’interiorità oppure rimanere forzatamente in superficie.

C’era bisogno, vi chiederete, di scrivere quattro pagine per formulare questo incipit? Non sono in grado di dare una risposta certa ma credo di sì. Posso ora, infatti, iniziare a catalogare con consapevolezza le immagini di Fabio, a collocarle vicino a quelle di altri fotografi e distante da altri ancora; ho capito che le scelte tecniche non sono soltanto scelte di stile ma possono sottendere un proposito o negarne un altro. Per esempio Fabio non intende certamente collocarsi nel maledettismo fotografico e così pure il sottoscritto, come ho già avuto modo di precisare (capisco di non riuscire a cancellare il mio egocentrismo ma il mio analista è stato rassicurante comunicandomi che quest’attitudine infantile aiuta a scrivere).

Le immagini di Fabio sono di persone note e no. Si sono avvalse, quando in studio, di un fondale, mentre altre sono immagini “di contesto”. Le prime (alla Nadar) sono spogliate di elementi estranei alla persona, talune alla ricerca di vicinanza emotiva ma la maggior parte, almeno a mio parere, sono distaccate, sono immagini di un turista professionale. Alcune di queste fotografie sono volutamente “enfatiche”
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altre sbandano verso gli “esseri umani esemplari” di Thomas Ruff”
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ma tutte, a mio parere, sono dentro il garbo della leggerezza e di un intento di fotografia “oggettiva”, distaccata.
Due immagini mi piacciono in modo particolare. Sono i ritratti di due giovani donne. Donne brune, entrambe. La prima
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con uno sguardo in macchina che ha elargito generosamente. Si abbandona, e con grande autostima sembra concedersi alla contemplazione di altri e la luce degli occhi e il bianco del volto, che occupano in prevalenza la parte sinistra dell’immagine, sono compensati da un orecchino che brilla sulla destra. E il nero della parte bassa funge da piedistallo da cui parte il lungo collo tornito che sostiene il volto. In tal modo, la parte alta e bianca dell’immagine si contrappone e trova significato a cospetto di quella bassa e scura. La seconda donna
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è su uno sfondo complesso, probabilmente un quadro che la sfocatura e l’assenza di colore hanno trasformato in un enigma geometrico che rafforza l’espressione spigolosa. Qui la base è bianca. E’ chiara, come la pelle seducentemente imperfetta della donna, con la luce che taglia da destra e che scurisce la metà del volto sulla sinistra. La massa scura dei capelli, però, compensa sulla parte opposta, sicché il volto, al centro, è in perfetto equilibrio. Ma lo stesso può dirsi della ragazza che sostiene con le dita intrecciate il capo e che, con sguardo obliquo, appare assente nella sua posa. Il grigio del fondale sulla sinistra è bruscamente interrotto dalla metà illuminata del volto e poi nuovamente, in alternanza, un’attenuazione dei toni e tutto ruota attorno a un’ideale diagonale che percorre l’immagine dall’angolo in basso a sinistra verso quello in alto a destra. Anche qui non c’è dato di cogliere l’anima della ragazza. Essa sta semplicemente posando e la luce, che riflette sulla pelle, forma geometrie compositive: una scenografia leggera che solo la fotografia è in grado di darci.
E’ questo ciò che soprattutto io vedo nei ritratti di Fabio: un’armonia compositiva non gridata, quasi mimetica, che con sorpresa scopriamo osservando le immagini, lasciando vagare lo sguardo a tentoni sulla superficie secondo percorsi condizionati in parte dalla struttura di ciò che osserviamo e in parte dalle nostre intenzioni. Come ha scritto Vilèm Flusser (Per una filosofia della fotografia), la lettura delle immagini è uno scanning. Possiamo tornare a un elemento dell’immagine che avevamo visto prima e il “prima” diventa il “poi” producendo nuove relazioni fra gli elementi, poiché un elemento conferisce significato all’altro e da questo ottiene il proprio significato. “Lo spazio ricostruito attraverso lo scanning è lo spazio del significato reciproco, è il carattere magico delle immagini”. E’ proprio questo che ho inteso in precedenza dire quando ho affermato che nelle immagini di Fabio i rapporti equilibrati fra le forme, le aree di luce e di ombra, la composizione, la compenetrazione fra i diverse elementi sono quello che possiamo scoprire lasciando vagare lo sguardo, ciò che è mèta rispetto ai volti ritratti.

Eppure, nonostante la capacità dei fotografi, nei volti delle persone ritratte in fotografia rimane sempre qualcosa che non è solo testimonianza (come invece accade in pittura) della maestria di colui che dipinto il quadro. Scrive Benjamin in Piccola storia della fotografia: “Nella pescivendola di New Haven di Hill, che guarda a terra con un pudore così indolente, così seducente, resta qualche cosa che non si risolve nella testimonianza dell’arte del fotografo, qualcosa che non può venir messo a tacere e che inequivocabilmente esige il nome di colei che lì ha vissuto, qualcosa che non potrà mai risolversi totalmente in arte”.
Il pensiero è complicato ma credo si possa sintetizzare dicendo che, quando si osserva una fotografia, è difficile distinguere quanto di ciò che vediamo appartenga ai tratti della persona fotografata (quel qualcosa che non potrà mai risolversi totalmente in arte) e quanto, invece, all’abilità del fotografo. Per esempio, se poniamo a confronto due ritratti di Fabio, quello della signora anziana dallo sguardo serio e dal grande e pesante busto scuro che sembra rivendicare un dovuto rispetto
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ebbene se mettiamo accanto a quest’immagine quella della giovane donna con la coda di cavallo obliqua,
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occhi e capelli scuri che volge verso di noi uno sguardo tanto intenso quanto distante (come nelle immagini di Helmut Newton dove tutto ci comunica estraneità), ebbene se vi chiedessi di scegliere quale sia il ritratto più riuscito, quanti di voi non sarebbero condizionati dalla diversa età e apparenza delle due donne. Insomma, banalizzando, se si fotografa una cosa bella, allora si hanno maggiori probabilità che l’osservatore possa pensare che si tratti anche di una bella fotografia. Una delle immagini più famose di Steve McCurry, una vera icona, è quella della ragazza afghana dagli occhi verdi, simbolo della tenacia, emblema di un’epoca difficile e di una nazione martoriata. Ebbene, Steve McCurry ha fotografato molti anni dopo la stessa donna, nella stessa postura e con le medesime capacità tecniche. L’immagine non è più la stessa e non è diventata famosa. La luce di quegli occhi d’origine, la fermezza di quello sguardo erano definitivamente persi e l’abilità del fotografo non è stata sufficiente a colmare quell’assenza. Steve McCurry aveva scelto una ragazza straordinariamente bella che manca nella seconda immagine.

Quest’ambiguità irrisolvibile dell’immagine fotografica è un tema davvero affascinante. E’ per questo che adoro fotografare le persone avendo come sfondo un quadro di Matisse piuttosto che di Giovanni Stupazzoni, ed è sempre per questo che mi sono autoeletto membro della corrente postmoderna cosiddetta della Sottrazione, cioè il riutilizzo, quasi parodistico, d’icone fotografiche di altri. Ricordo Robert Heinecken, che si definiva parafotografo, e che lavorava attorno alla metà degli anni ‘70 su immagini raccolte dalla carta stampata mettendo in discussione le nozioni di originalità, autore e autenticità (ammetto di essere un poco in ritardo rispetto a Heinecken ma ero in buona fede quando ho iniziato).

C’è chi estremizza tale posizione, come Ando Gilardi, il quale in “Meglio ladro che fotografo” scrive che le fotografie noi non le facciamo ma le prendiamo con un apparecchio che le fa. Confondere il “fare” una fotografia con il “prendere” una fotografia equivarrebbe a dire che “chi ha acquistato un quadro pensasse, dopo averlo appeso alla parete, di averlo fatto lui o come se, chi avesse comprato un CD con una sinfonia di Beethoven credesse di averla composta lui quando l’ascolta”. Insomma, all’interno di questo tema complesso che riguarda il distinguere fra ciò che appartiene alle caratteristiche del referente e ciò che possiamo attribuire all’abilità del fotografo, si può essere radicali: il fotografo può solo scegliere quello che l’apparecchio farà. Ma questo è il punto (anche Gilardi sostanzialmente concorda), perché la scelta non è passiva, occorre una buona cultura. E’ quanto basta. Si possono scegliere molte cose diverse, per esempio acquistare un CD contenente musica di Mozart oppure del solito Giovanni Stupazzoni (il quale Stupazzoni, paradossalmente, più è citato per la sua presunta modestia più cancella tale modestia). Possiamo anche comporli gli “oggetti” che abbiamo scelto di inserire in un’immagine e costruire piccole e grandi scenografie, piccole e grandi atmosfere, sino ad arrivare ai tableau vivant, alle cosiddette narrazioni visive, alla fotografia della messa in scena, al cinema in pausa di Jeff Wall o di Gregory Crewdson.

Ebbene, anche se si assumesse una posizione estrema come quella di Ando Gilardi, il merito delle immagini di Fabio Fantuzzi, per quanto mi riguarda, rimarrebbe lo stesso, perché questo merito, come detto, è nella grazia della composizione, negli equilibri bilanciati di luce che sviluppa, nel senso di armonia che trascende quello delle persone ritratte. La grande parte delle immagini che oggi vediamo è fatta per stupirci, per smarrirci, per estraniarci. Devono colpirci subito le immagini perché, altrimenti, andremmo in altre direzioni. La leggerezza, dunque, non può essere utilizzata per magnetizzare la nostra distratta curiosità. Nei ritratti di Fabio, al contrario, la freschezza e la leggerezza sono caratteri centrali. Le sue sembrano immagini ottenute con facilità. Sembra che il lavoro non sia costato alcuno sforzo perché il risultato, come detto, è quasi mimetico. E’ il risultato dell’eleganza che deve essere smascherata perché non è mai appariscente. Paradossalmente, se c’è una patina nelle immagini di Fabio, se c’è qualcosa che vela questi ritratti imponendoci una riflessione, questa patina è quella della sobrietà.

Diego Macrì
Professore presso la Facoltà di Ingegneria di Reggio Emilia, è nato a Scilla, Reggio Calabria nel 1947. In quegli anni il padre è trasferito a Roma dove diventa presto amico di pittori e scultori, in particolare Renato Guttuso, Mario Schifano, Tano Festa, Giulio Turcato, Tancredi Parmeggiani, Giuseppe Mazzullo.
L’interesse per le immagini si sviluppa così “naturalmente”, seguendo il padre nei suoi itinerari pomeridiani fra gli studi dei pittori e le gallerie di via del Babbuino.
Quel lungo periodo formativo di esposizione “passiva” alle opere di molti artisti lo abitueranno ad apprezzare le arti visive, con le quali diventa familiare attraverso la consuetudine, la ripetizione dell’osservazione, l’esercizio sistematico dello sguardo, i rilievi critici che ascolta.
Inizia a fotografare a dodici anni con una piccola Ducati 18×24 mm.
Si laurea a Roma in ingegneria. Ama la Pop Art e dopo la laurea dipinge per cinque anni composizioni non figurative a olio. Dal 1976 vive a Bologna, dove riprende a fotografare in modo continuo dal 2006.
Tra le numerose esposizioni ricordiamo la partecipazione all’edizione 2010 di Fotografia Europea (Reggio Emilia).
Le sue immagini poggiano su quel filo sottile che separa fra loro verità e artificialità, che le attuali tendenze artistiche propendono per fondere nel nuovo concetto di realtà, generato dal mondo visivo ingannevole, ambiguo e ibrido del nostro quotidiano postmoderno.
Presso Galleria Studio Cenacchi ha esposto nella personale Fictionalism (2017)